La “Recherche” di Claudio Arrau


di Piero Rattalino





Ascoltai per la prima volta Claudio Arrau nel 1951, dapprima in disco (nel primo quaderno di lberia) e dopo poche settimane dal vivo.

Mi colpì nel disco, che era ancora un 78 giri, la nettezza, la precisione di ogni particolare; il che, con un pezzo ingarbugliatissimo come El Corpus en Sevilla, era cosa quanto mai sorprendente. Ancora più sorprendente fu però per me constatare che Arrau non doveva in verità aver problemi, nell’incidere, perché suonava in pubblico esattamente come in disco, con la stessa limpidezza e con la stessa pulizia, anche in momenti perigliosi come i salti nel secondo tempo della Fantasia di Schumann o le note ribattute in Alborada del gracioso di Ravel.

Si restava attoniti, ma non si restava conquistati perché la sonorità, pur bellissima, non era magica come quella di Benedetti Michelangeli. Del resto, alla metà del secolo, e pur essendo ormai prossimo alla cinquantina, Arrau non era considerato un sommo pianista. I sommi erano in Europa Backhaus, Rubinstein e Benedetti Michelangeli, ai quali si aggiungeva Horowitz negli Stati Uniti; poi venivano Kempff e Serkin, e dietro, rispettati e non amati, Solomon e Arrau.

Era più amato Magaloff, che pure era allora considerato un simpatico charmeur al pianoforte più che un maestro; Solomon e Arrau, nei quali non c’era nulla di criticabile tranne la perfezione, apparivano un po’ come dei moderni Canova. E il tempo del neoclassicismo cominciava a tramontare. Le mie prime impressioni, che corrispondevano all’opinione comune, furono del resto confermate l’anno dopo, quando sentii da Arrau una Sonata op. 111 di Beethoven immacolata, seguita da politissime Variazioni su un tema di Händel di Brahms.

Per parecchi anni non ebbi più occasione di ascoltare Arrau, e non cercai i suoi dischi. Lo riascoltai agli inizi degli anni ’60.

Nel frattempo si era aggiunto ai sommi Emil Gilels, Horowitz si era momentaneamente ritirato, si cominciava a sentir parlare di Richter.

L’Arrau che ritrovai era diverso dall’Arrau che ricordavo: era molto più virtuosistico nel modo di affrontare i testi e sbagliava parecchie note e non era più sempre così limpido. E conquistava, anche se forse non entusiasmava, anche se certamente non faceva delirare.

Non mi accorsi di che cosa significasse ciò esattamente. Un maestro che rispettavo molto, e che aveva il culto dell’esattezza, commentò il concerto di Arrau dicendomi: “Ha quasi sessant’anni e non è più fresco fisicamente”. A me non sembrava. Anzi, mi sembrava che Arrau suonasse con un ardore giovanile persino un po’ avventato. Non ci pensai però più che tanto, alla diagnosi. Ma i dischi di Arrau cominciai a cercarli.

Capii più tardi che alla soglia dei sessant’anni Arrau aveva iniziato la sua recherche, ripercorrendo gli anni della giovinezza e ripensando ad un mondo in cui l’oratoria di Demostene aveva fatto premio sull’oratoria di Lisia e in cui le note sbagliate, com’egli disse più tardi parlando con Joseph Horowitz, erano considerate una prerogativa del genio.

Di questo sensazionale – allora, ma anche oggi, per chi pensa da storico – recupero critico della retorica abbiamo un esempio lampante nelle Variazioni su un tema di Händel eseguite a Lugano il 20 maggio 1963. L’esecuzione dell’Aria appartiene, in apparenza, al vecchio Arrau: è marmorea, con trilli fittissimi non indegni della pignoleria maniacale di Benedetti Michelangeli. Ma non è più canoviana perché nei punti culminanti (ultima nota della terza battuta, ultima della sesta) Arrau abbassa la dinamica invece di elevarla. Il punto culminante perde così la sua forza propulsiva, e si ingentilisce e fa ripiegare l’espressione in modo elegiaco invece di esaltarla: Arrau è qui parnassiano, ma è anche decadentistico.

Con la prima variazione il mondo incantato dell’Aria sparisce bruscamente, e quel che appare al suo posto è un romanticismo tumultuoso, con un piacere della bravura, dei giochi di colore, degli eccessi, che induce Arrau, solitamente rispettosissimo del testo, a legare con il pedale, la quarta alla quinta variazione, a cambiar tempo più volte, a fare francamente il giocoliere nella sedicesima variazione, a metter quintali di pedale nella venticinquesima variazione, a inventare un non previsto – e del resto bellissimo – effetto di diminuendo alla battuta 92 della Fuga, a concludere la fuga stessa con i toni di una maestosa arringa da corte d’assise. E senza badare ai tasti sbagliati o talmente sfiorati che il suono non esce: si veda, esempio tipico, la quarta variazione.

Questi due estremi, del controllo minutissimo e dello scatenamento vitalistico, ricorrono in tutto il programma. Controllatissimo è il Gaspard de la nuit di Ravel, scatenati sono tutti i brani di Liszt (con poche note sbagliate; ma la nota sbagliata è un caso, un accidente che può esserci o non esserci: essenziale è l’atteggiamento morale, il piacere del rischio, di cui la nota sbagliata è a volte la conseguenza.

Del Gaspard Arrau aveva inciso in disco, più di dieci anni prima, Ondine e Le gibet. Non è qui il luogo per paragonare le due esecuzioni, e il disco non sarebbe del resto un documento del tutto attendibile per valutazioni molto sottili. Sembra tuttavia che, rispetto al disco, nel 1963 Arrau avesse acquisito un nuovo dominio del colore, cioè una tecnica del suono di raffinatezza tale da poter dare l’illusione di una esecuzione a due pianoforti. Diversificazione estrema dei colori, prospettiva, distanze sono apparentemente quelle del duo pianistico. Si può certamente dire che un Ravel così eseguito inclina sensibilmente verso Rachmaninov, ma si tratta di sfumature che non portano, alla fine, a conclusioni critiche certe. Quel che si ammira incondizionatamente, quel che fa entrare questa esecuzione tra i momenti più stupefacenti del pianoforte in concerto è l’illusionismo timbrico spinto fino al limite estremo.

Infine, Liszt. La tensione virtuosistica tocca qui quasi costantemente il limite della bravura. Anche la trascrizione di Le mie gioie di Chopin, che persino virtuosi come Moriz Rosenthal avevano toccato con garbo salottiero, è affrontata come un pezzo da concerto. In Gnomenreigentroviamo, curiosamente, il calcolo esattissimo e la cura di differenziare acciaccatura e non-acciaccatura, che porta Arrau a frenare un po’ lo slancio della prima pagina, accanto a spinte virtuosistiche che bruciano ogni margine di sicurezza. E non si può dire che non si vada vicinissimi al precipizio, nella sezione in fa diesis maggiore ( dalla battuta 121). Ma la freschezza fisica di Arrau,il suo suonare da quarantenne invece che da sessantenne viene rivelata dalla fulminante conclusione di quello stesso passaggio (batt. 142-143): le ottave, pericolose perché arrivano all’improvviso dopo un lungo tratto di scale, perché procedono per moto contrario e perché toccano scomode combinazioni di tasti bianchi e neri, lasciano a bocca aperta.

Del Mephisto Waltz non abbiamo incisioni in studio: questa è l’unica testimonianza dell’interpretazione di Arrau1. Ed è grandiosa per la forza e la libertà dell’eloquio e per il dominio virtuosistico.

La stretta è inimmaginabile: bisogna sentirla, per capire come un’analisi musicale rigorosissima possa tradursi in apocalittica rappresentazione di una emozione. Non si tratta di un’esecuzione semplicemente virtuosistica. Questa è bravura, capacità di narrare dominando una molteplicità di eventi difficilmente controllabili nel loro insieme.

Con Liszt, indubitabilmente, Arrau si conquistava il diritto di entrare tra i sommi, tra i personaggi che fanno la storia, anche se la sua successiva evoluzione lo avrebbe portato a ridimensionare e a disciplinare la magniloquenza che, per uscire dal canovismo, aveva per un momento sposato. E proprio per questa ragione il recital del 1963 rappresenta un unicum, la testimonianza di un momento evolutivo molto particolare di uno tra i più grandi artisti del nostro tempo.

1 Dopo la stesura di queste righe, è uscito sul mercato il disco 422060-2 Philips che reca una registrazione di parte dei brani qui trattati (n.d.r.).



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