Il mio incontro con George Szell


di Glenn Gould

da "Videoconferenza" in: Glenn Gould, "No, non sono un eccentrico", a cura di Bruno Monsaingeon, traduzione di Carlo Boschi, Torino, E.D.T., 1989 (per gentile concessione dell'Editore)





Per la mia prima tournée americana – nel marzo del 1957 – ero stato ingaggiato dall’Orchestra di Cleveland, ed ero al mio debutto in quella città. Il programma, così come era stato originariamente concepito, comprendeva il Secondo Concerto di Beethoven e il Concerto per pianoforte di Schoenberg. Come si sa, George Szell era stato insignito dell’Ordine al Merito dell’Impero Britannico – o qualcosa del genere- che gli era stato attribuito in ragione degli illustri servigi che aveva reso alla musica britannica, i quali servigi non consistevano in altro se non nell’aver fatto delle prime esecuzioni di opere di William Walton. Ma non aveva alcun interesse per Schoenberg, né per alcun’ altra figura un po’ seria della musica contemporanea. Dunque mi sembrava piuttosto strano che avesse scelto il Concerto di Schoenberg, ma, dato che era così, per me andava benissimo. Ed ecco che, una settimana prima del concerto, il direttore dell’orchestra chiamò il mio agente per dirgli che il dottor Szell aveva un programma talmente denso che non avrebbe avuto tempo di fare le prove del concerto di Schoenberg… cosa che, detta in altre parole, voleva dire naturalmente che non si era studiato l’opera (risate) – così almeno io interpretai la cosa, in modo, a mio avviso, verosimile – e che, di conseguenza, avrei dovuto suonare solamente Beethoven. Non ero certo io che potevo oppormi a Szell – conoscevo la sua fama di ciclope – e naturalmente accettai. All’epoca usavo già la stessa sedia che uso oggi, solo che oggi non ha nemmeno più il sedile, ma soltanto una barra trasversale: a quel tempo non era ancora stata totalmente scardinata dai vari trasporti aerei. Aveva peraltro anche dei piccoli piedi in metallo fissati all’estremità delle gambe per poggiare in terra. Ma ancora non avevo trovato il modo di abbassarla di altri tre centimetri per dare alle mie gambe una traiettoria che non fosse scomoda. Per ottenere questo risultato mi restava invece l’altra soluzione, che consisteva nel rialzare il pianoforte. Ci avevo già provato a casa, con risultati assolutamente soddisfacenti.

Dunque, arrivato a Cleveland, decisi di far fabbricare delle zeppette di legno con una scanalatura dove si potessero venire a incastrare le rotelle del pianoforte. Poi mi recai in sala. Il dottor Szell stava provando il New England Triptych, un’opera di William Schuman con cui doveva aprire il concerto. La prima parte del programma comprendeva inoltre il Secondo Concerto di Beethoven – il che creava peraltro un’accoppiata alquanto bizzarra – e poi c’era l’intervallo. Nella seconda parte mi pare ci fosse il Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy e, per finire, Morte e Trasfigurazione, di Strauss. Anche qui l’ assortimento era molto strano ma, in fondo, tutto il programma era assolutamente ridicolo. Come ho già detto, dovevo debuttare con l’orchestra di Cleveland, e in un modo o nell’altro, quando è la prima volta, quando si è ancora vergini, ci si ricorda di tutto, ivi compreso il programma (risate).

Per farla breve, entrai nella sala mentre il dottor Szell provava il pezzo di William Schuman. Domandai a un inserviente se fosse possibile trovare da qualche parte un falegname per farmi un lavoretto. Mi fu risposto: “Sì, c’è il vecchio Joe … – senza dubbio il nome era diverso, non ricordo più – … che dovrebbe essere a lavorare nello scantinato. Vada da lui e glielo chieda direttamente”.

Lo feci immediatamente. Era un tipo molto in gamba e gli spiegai che volevo delle zeppette di legno, che peraltro a partire da allora ho utilizzato sempre (non le stesse, non quelle sue, me ne hanno poi costruite di più elaborate, ma uso sempre lo stesso sistema, perché nel corso di tutti questi anni la mia posizione da seduto non è mai cambiata). Comunque, il vecchio Joe mi disse: “Sì, credo di poterlo fare. Ma non ha paura che il pianoforte rotoli su queste zeppe?”. Gli risposi che ci avevo pensato, e che avrebbe dovuto farci delle scanalature in cui incastrare i piedi del pianoforte impedendogli di spostarsi. Al che aggiunse: “Sarà meglio che dia un’occhiata allo strumento”.

A quel punto mi vennero a cercare nello scantinato per informarmi che il dottor Szell mi reclamava sul palcoscenico. Così mi rivolsi al vecchio Joe, e gli dissi: “Ci sarà sicuramente una pausa fra una mezz’oretta, e dubito che la prova sarà terminata; probabilmente continueremo dopo. Venga da me durante la pausa: discuteremo di quello che si può fare e di quanto Le devo”. Volevo a tutti i costi pagarlo io, perché il lavoro che gli richiedevo non aveva chiaramente niente a che vedere con l’Orchestra di Cleveland.

Detto ciò, salii sul palcoscenico e provammo il primo movimento – tutto andò a meraviglia – dopo di che i musicisti poterono fare la loro pausa sindacale. Come spesso fanno gli orchestrali, alcuni di loro restarono nella sala a passeggiare e chiacchierare. E Szell fece altrettanto. Non so se ne avesse l’abitudine, ma non credo. Aveva un comodissimo camerino, con un divano color cremisi, che ricordo benissimo. Era strano da parte sua avere una cosa simile, perché ci si sarebbe aspettati che il suo mobilio fosse piuttosto austero e che il suo studio somigliasse a quello di Freud, no? (risate). A un certo punto si avvicinò al palcoscenico, al bordo del palcoscenico, che, dato che lui era in basso, si trovava all’altezza della sua spalla – e disse: “Kosa fa?”, gli spiegai che Joe e io stavamo provando a rialzare il piano, visto che non potevamo abbassare la sedia, per permettere alle mie gambe di stare in una posizione comoda; che rialzando il piano si sarebbe ottenuto lo stesso risultato e che il bravo Joe mi avrebbe fabbricato delle zeppe di legno che sarebbero state pronte per il concerto della sera. Il Maestro mormorò un “Humm” appena udibile.

Questo fu tutto, e se ne tornò a chiacchierare nella sala con qualcuno del suo entourage. Trascorsi quindici minuti, dato che la pausa era terminata, l’inserviente richiamò gli orchestrali, i musicisti ripresero posto sul palcoscenico e la prova proseguì con il secondo movimento di Beethoven. Nel momento in cui Szell dava inizio al «tutti» del secondo movimento – che dura di solito circa trentacinque secondi – mi resi conto che, mostrando al falegname quello che teoricamente potevo fare con la sedia, avevo leggermente squilibrato uno degli zoccoletti di metallo. Dunque mi accovacciai per terra e, mentre Szell dirigeva il «tutti» – la cosa non lo avrebbe minimamente disturbato – sistemai lo zoccolo in modo tale che fosse esattamente all’altezza degli altri tre piedi della sedia – niente di più – e poi mi sedetti di nuovo. Da quel momento la prova riprese il suo corso normale.

Dovrei precisare – sebbene non creda che ciò abbia in alcun modo contribuito a quello che successe in seguito – che, durante il primo movimento, avevo suonato utilizzando abbondantemente il pedale del piano, come spesso faccio nelle opere di Beethoven prima maniera (e in Mozart), per affinare il suono. A Szell non era piaciuto e si era fermato per dirmi: “Mi scusi, signor Gould, non capisco perché utilizzi il pedale del piano. Non è necessario. Produce un suono femmineo“. Questa è una citazione letterale … mi ricordo ancora di questa frase. Al che risposi: “Dottor Szell, non ho certamente bisogno di dirLe che il pianoforte di Beethoven era ben lungi dal poter produrre il genere di suono del pianoforte moderno. E si dà il caso che io preferisca un suono delicato con dei forti ridotti. Se Lei vuole che io esca un po’ di più lo farò, ma terrò lo stesso abbassato il pedale del piano“.

Evidentemente era rimasto un po’ urtato dalla mia osservazione, visto che non aveva l’abitudine che si criticassero le sue opinioni, soprattutto se chi le metteva in discussione era un giovane zerbinotto al suo debutto sulle scene americane, come nel caso mio. E del resto la cosa non andò oltre. Si limitò a girarsi verso Louis Lane (all’ epoca vicedirettore dell’Orchestra di Cleveland) che era in sala, e a gridargli qualcosa tipo: “Louis, si sente abbastanza il pianoforte?”, Louis rispose: “No, non proprio”. Che altro poteva dire? Louis era un ragazzo molto gentile, ma si comportava come una cavalletta pietrificata! Intendo dire che aveva già trascorso vent’anni della sua vita accanto a questo satrapo (risate). Dunque cos’altro poteva dire, se non “No, non proprio”? A mia volta replicai: “Suonerò un po’ più forte. Ma questo non ha niente a che vedere con il pedale del piano. Anzi, con il pedale del piano si ottiene un suono molto più penetrante, perché dà trasparenza alle strutture, le affina, per il semplice fatto che si suona soltanto su due corde. Si accorda molto meglio con questo tipo di musica, salvo naturalmente che nei passaggi culminanti più esaltati, dove in ogni modo elimino il pedale. Ma con Beethoven, Mozart o Bach non suono mai su tre corde. Ad ogni modo, non si preoccupi, suonerò un po’ più forte”.

Fu la nostra sola disputa di carattere musicale. La serie di concerti che demmo fu un grande successo, e Szell fu prodigo di elogi. Tuttavia, alla fine del primo concerto mi ripeté che non approvava il mio modo di utilizzare il pedale del piano. Lo trovava ridicolo e ripartì alla carica: “Mi dispiace utilizzare questo termine, ma produce un suono molto effeminato”. Capivo bene che voleva dare a tutta la storia una connotazione sessuale, ma feci come se niente fosse e gli dissi ancora una volta: “Sono desolato, dottor Szell, ma è così che suono le opere giovanili di Beethoven”. Invece, quello che avrei voluto dirgli in realtà era: “Perché diavolo non riduce la sua dannata orchestra? Ci sono fin troppi archi!” (risate). A parte ciò, non ci fu nessun altro problema. Da allora sono più volte ritornato a Cleveland, dove ho suonato in genere sotto la direzione di Louis Lane per i concerti con orchestra. Ma ricordo che, un giorno che dovevo dare un recital e il mio pianoforte (per una qualche ragione) non era arrivato in tempo, chiesi di utilizzare il pianoforte dell’orchestra, che era uno Steinway decisamente notevole – comunque eccezionale per uno strumento di quel genere. Feci perfino visita a Szell nel suo antro di Severence Hall [La sala da concerto di Cleveland]. Bussai coraggiosamente alla porta, entrai, e facemmo quattro chiacchiere molto distese.

Ci sono stati peraltro altri incontri del genere soprattutto negli uffici della Columbia Records, e lui fu sempre assolutamente gradevole. Fra di noi non ci sono mai più stati malaugurati incidenti.

Detto ciò, come senz’altro ricorderà, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta Szell e l’Orchestra di Cleveland registrarono per la Epic, e non per la Columbia. Beninteso la Epic e la Columbia erano giuridicamente la stessa cosa, ma la Epic era un’etichetta riservata ai dischi d’importazione e alla musica pop. All’epoca il Juilliard Quartet incideva per la Epic, e così pure Leon Fleisher, e anche Szell. Inizialmente Szell voleva registrare per la Epic perché, in un colpo solo, gli era possibile registrare, ad esempio, le nove Sinfonie di Beethoven, o un repertorio simile, che sarebbe stato in diretta competizione con quello che Bernstein e Ormandy volevano fare in quello stesso momento.

Ora, nonostante Szell fosse un direttore d’orchestra ben più grande di quelli (per me Szell era ancora più completo di Toscanini, nella cui tradizione si situava), i suoi dischi non si vendevano. Non si vendevano, punto e basta. E dunque la Columbia spingeva con incredibile energia per rendere popolare il nome di George Szell. E fu così che, nell’inverno 1963, riuscirono a convincere “Time” a fare un grosso reportage su di lui, con foto di copertina e tutto il resto. All’epoca mi trovavo a Chicago, e comprai per caso “Time” dal giornalaio all’angolo. La fotografia di George Szell faceva bella mostra di sé in copertina, cosa che naturalmente suscitò la mia curiosità: e così lessi l’articolo. In uno dei paragrafi scoprii subito con orrore qualcosa di questo genere (ciò che sto per dirLe è solo una parafrasi, ma non si allontana molto dall’ originale): “Uno dei tratti leggendari del maestro è il suo cattivo carattere che, pur non essendo paragonabile a quello di Toscanini, gli si avvicina comunque molto”. Sto parafrasando, ma il senso è quello. L’articolo proseguiva: “Così, dopo vent’ anni, il violinista Isaac Stern si rifiuta di suonare con Szell. Glenn Gould, il pianista canadese, ha suonato con lui una sola volta e, in occasione dei numerosi concerti da lui dati in seguito con l’orchestra, il maestro ha sempre insistito perché la direzione venisse affidata a un direttore esterno. L’incidente di Gould è tipico di un altro aspetto della notevole personalità di Szell – il suo brillante senso dell’umorismo … ” (risate). Per come lo conoscevo io, questa non era certo una delle sue caratteristiche fondamentali … “Durante le prove, il signor Gould, notoriamente un eccentrico che ama creare situazioni imbarazzanti per via di una sedia ridicolmente bassa, si mise a far perdere tanto di quel tempo prezioso all’orchestra che il maestro, lanciandogli sguardi furibondi, gli disse: «Se non le dispiace, vorrebbe smetterla con queste ragazzate, altrimenti piallerò via io stesso un mezzo centimetro dal Suo fondoschiena, permettendole così di sedere più in basso»”. La frase era all’incirca così: “Un mezzo centimetro del Suo fondoschiena”. Poi l’articolo aggiungeva: “In occasione delle sue visite successive, il Signor Gould fu ovviamente sempre accompagnato da un direttore esterno, ma il dottor Szell assistette spesso ai suoi concerti e, al termine di uno di essi, lo si sentì dire: “Questo matto è un genio”. Fine del paragrafo. E poi il reportage attaccava un’altra storia.

Ne fui assolutamente disgustato. Ciò che mi shoccava in tutta questa storia era che niente del genere era mai successo. Dato che lo conoscevo abbastanza bene telefonai a Louis Lane: “Che cos’è questa storia?”. Mi sentii rispondere: “Il maestro è così contrariato che non può neanche immaginarlo”. Louis è un tipo molto in gamba, mi piace veramente molto, e ho sempre trovato che come direttore d’orchestra era molto sottovalutato. È un direttore eccellente, ma era a tal punto sotto l’influenza di Szell che mi sembrava che, precipitandosi a difenderlo, agisse come per un riflesso condizionato.

Insistetti:

“Ma che roba è questa? Louis, Lei sa bene che non c’è niente di vero in questa storia”.

“Certo – mi rispose – ero presente; non è successo mai niente del genere”.

Continuai:

“Non riesco a capire. Quello che dicono circa la sistemazione della sedia è sicuramente vero. La storia del “matto ecc.” me l’ha raccontata Lei stesso qualche anno dopo, dunque è vera. Ci sono quindi molte cose che si avvicinano alla realtà. Ma da dove è saltata fuori la storia del «piallerò un mezzo centimetro del suo fondoschiena» ?” “Non riesco a capire-mi disse-ma lo sa com’è «Time», e come sono tutti i giornali … pronti a inventarsi di tutto”.

“Invece- gli dissi- questo non corrisponde affatto alla mia esperienza personale. Per quanto mi riguarda «Time» non si è mai inventato niente. Verificano tutto con grande scrupolo. Hanno perfino dei verificatori che verificano i verificatori. Sono sempre stati scrupolosamente esatti in tutto quello che hanno scritto su di me. Sono veramente molto sorpreso”.

E Louis:

“Le posso assicurare che, se il maestro fosse qui, si profonderebbe in scuse, e né lui né io riusciamo a capire come ciò sia potuto succedere. È incredibilmente contrariato: da una settimana non parla d’altro; non riesce a credere che abbiano potuto pubblicare una cosa così ignobile e così totalmente falsa”.

E questo è quanto. Ed ecco che, un mese dopo, la Columbia mi chiede se autorizzavo il critico musicale di «Time», Barry Farrel, quello che aveva scritto il reportage su Szell, ad assistere a una delle mie sedute di registrazione. Lo feci con grande riluttanza, perché normalmente non faccio entrare nessuno negli studi dove registro. Finita la seduta, uscimmo a prendere un tè e poi, rientrando in albergo, lo accompagnai al suo ufficio. Nessuno aveva fatto il benché minimo accenno alla storia di Szell, anche se era stata pubblicata solo due mesi prima. Alla fine, non potendomi più trattenere, gli dissi:

“Può essere che la mia domanda manchi di tatto e, beninteso, Lei può rifiutare di rispondermi, rifiutare di svelare le Sue fonti, ma, come può bene immaginare, sarei molto curioso di sapere com’è che ha sentito parlare di quella cosa a proposito di George Szell”.

“Di cosa si tratta?”, mi chiese.

Allora gli riassunsi brevemente quello a cui stavo alludendo e gli dissi che nella storia, così come era stata pubblicata, c’erano elementi di verità: quel giorno mi ero effettivamente messo a fare qualche lavoretto sulla sedia, pur senza interrompere un solo istante la prova. L’aneddoto di “Questo matto è un genio” mi era stato riferito da Louis Lane; che fosse esatto o no, poco importava, ma non pensavo che Louis se lo fosse inventato. Quindi c’erano non poche cose che suonavano vere. Ma quello che era assolutamente falso era che ci fosse stata una scenata, accompagnata da commenti vagamente osceni, in presenza dell’ orchestra.

“Sul serio?” mi disse.

“Assolutamente – risposi – e quindi vorrei tanto sapere quali furono le Sue fonti. Ci sarà ben stato qualcuno a suggerirle questa frase”.

“Beh, credo proprio di poterglielo dire. È George Szell in persona” dichiarò.

“Sta scherzando!”, esclamai.

“No – mi disse lui- Nell’ultimo pomeriggio che trascorremmo insieme gli dissi: «Dottor Szell, sono un po’ a corto di aneddoti che possano fare effetto sui nostri lettori dando loro un’idea del Suo senso dell’umorismo. Non ne avrebbe in mente uno?». Ed è questo quello che ha deciso di raccontarmi” (risate).

Quando poi Szell, nel 1970, morì, il «Time» pubblicò un «coccodrillo». Non avendo che questa storiella nei loro dossier, la ristamparono tale e quale. Dal canto suo, anche «Newsweek» voleva pubblicare un pezzo per la sua morte: dato che non volevano dare l’impressione di copiare alla lettera «Time», utilizzarono lo stesso aneddoto, ma ricamandoci un po’ su. Non ricordo i particolari della variante, ma era qualcosa del tipo: “Piallerò via un mezzo centimetro del suo fondoschiena con uno dei piedi della sua dannata sedia”. Ecco quello che aggiunsero per dare all’articolo un tocco di originalità e confondere le piste, facendo credere al tempo stesso che la storia veniva direttamente dall’ interessato.

Tre mesi più tardi un numero della rivista «Esquire» pubblicò un articolo per la morte di Szell. Era chiaro che «Esquire» non si sentiva vincolata dalle stesse considerazioni di buon gusto di «Time» e «Newsweek». L’articolo cominciava dunque con il ripetere un aneddoto inesatto, in base al quale io avrei interrotto la prova, eccetera eccetera. Poi proseguiva con dei commenti sull’incredibile generosità di Szell che, malgrado l’avversione personale che provava nei miei confronti, mi aveva reinvitato di anno in anno. Il tutto non faceva che sottolineare quanto fosse onesto ed educato, malgrado i suoi modi all’europea e il suo atteggiamento scorbutico. Tuttavia, arrivato al famoso episodio – che naturalmente si svolgeva in presenza dell’orchestra, come del resto in tutte le versioni precedenti – l’autore dell’ articolo aggiungeva che il dottor Szell aveva lanciato dal podio un’occhiataccia dicendo: “Zignor Gould, ze lei non smettere zubito qveste assurdità, io … ” – non mi ricordo bene la formulazione esatta, ma non è importante – ” … infilare Lei uno piede ti zedia in zedere”.

Si dà il caso che il redattore capo di «Esquire » fosse un vecchio torontese, e che io lo conoscessi. Quindi mi decisi a scrivergli in questi termini: “Ignoro quali siano le disposizioni di legge riguardo a questo genere di cose e non mi va di saperlo, perché non ne vale la pena; in allegato troverà una lettera che Le sarei grato di pubblicare per esteso nel prossimo numero del Suo giornale. Sono solo quattro frasi, e La pregherei di non togliere neanche una parola! E neanche una virgola!” (risate).

La lettera fu pubblicata. Se posso permettermi di dirlo, era un capolavoro in quattro frasi, in cui dichiaravo che la storia, nella variante in cui l’aveva riportata il giornalista di «Esquire», non era di prima mano e attingeva a fonti precedenti. Pur senza elencare le suddette fonti dicevo che era stata riprodotta con tutti gli errori già contenuti nelle altre riviste. Affermavo quindi che ero cosciente che era stato saltato un passaggio ( come si dice in gergo cinematografico), e che la storia era senza dubbio pervenuta alle orecchie del giornalista in quella forma. Tuttavia, poiché ritenevo che l’articolo avesse nei confronti del dottor Szell le migliori intenzioni del mondo, e poiché si trattava di un testo decisamente elogiativo, era un vero peccato che si fosse scelto di commemorare il dottor Szell attraverso un’unica e sola virtù, il suo senso dell’umorismo, come se il direttore d’ orchestra non ne avesse possedute altre, come persona e come musicista. E che inoltre, così facendo, il giornalista aveva riportato una notizia totalmente falsa e assolutamente di cattivo gusto. E aggiungevo che era naturalmente possibilissimo che questo genere di battuta apparentemente brillante fosse stata archiviata nel fascicolo del dottor Szell alla voce: “Risposte che mi sarebbe piaciuto dare, ma per le quali, lì per lì, mi è mancata la presenza di spirito”. E che, con il passar degli anni, era senza dubbio possibile che essa avesse assunto nella sua mente le sembianze della realtà, come se l’avesse realmente proferita. Ma, concludevo, tutto quanto posso dirLe è che, se l’avesse veramente detta, davanti all’orchestra o direttamente a me, l’Orchestra di Cleveland avrebbe dovuto cercarsi un altro solista per il concerto della sera, perché io me ne sarei andato su due piedi”.

Rispetto alla descrizione che ne ho fatto la lettera era molto più tagliente, ma essenzialmente il suo contenuto era questo. «Esquire» la pubblicò. E l’incidente fu chiuso, perlomeno fino a quando non è arrivato Lei con la Sua nuova variante (risate). Adesso che conosce tutta la storia, la può utilizzare come vuole.

da “Videoconferenza” in: Glenn Gould, “No, non sono un eccentrico”, a cura di Bruno Monsaingeon, traduzione di Carlo Boschi, Torino, E.D.T., 1989 (per gentile concessione dell’Editore)



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