Negli anni ’50 le cinque maggiori orchestre degli Stati Uniti, e tra le maggiori del mondo intero, erano dirette da europei. Di essi, tre – Ormandy, Reiner, Szell- erano nati in Ungheria, uno – Mitropoulos – in Grecia, ed uno – Münch – in Francia. Erano quasi scomparsi, già a partire dal periodo tra le due guerre, i direttori d’orchestra tedeschi, che avevano invece dominato il primo periodo della vita musicale americana, quella a cavallo tra i due secoli. Ai tedeschi erano subentrati direttori di altre nazioni europee, e solo nel 1958, con la successione di Bernstein a Mitropoulos alla testa della Filarmonica di New York, un direttore nato e formatosi negli Stati Uniti avrebbe assunto la responsabilità di un’orchestra americana di fama internazionale. Aggiungiamo, tanto per completare lo schizzo storico, che di recente alcuni direttori tedeschi- Dohnányi a Cleveland, Masur a New York – hanno assunto negli Stati Uniti incarichi di grande rilievo, reinverdendo la vecchia tradizione di cent’anni prima.
Negli anni ’50, dunque, ben tre direttori appartenenti ad una piccolissima nazionalità, l’ungherese, occupavano posizioni dominanti nella vita musicale degli Stati Uniti. Blau Jenö, divenuto Eugene Ormandy, aveva assunto nel 1938 la piena responsabilità dell’orchestra di Filadelfia, Reiner Frigves, divenuto Fritz Reiner, veniva nominato nel 1953 direttore stabile della Sinfonica di Chicago, Szell György, divenuto George Szell, era nel 1946 il responsabile dell’ orchestra di Cleveland. Ormandy era gentiluomo dai modi felpati, tanto abile come direttore che come organizzatore e manager, Reiner era un tiranno che, terrorizzando le orchestre, otteneva eccezionali risultati di precisione e di chiarezza, e Szell, autoritario ed irascibile come pochi, stava alla pari con Reiner in quanto tecnico della direzione.
Si ascoltino con attenzione gli accordi finali nel primo tempo della Sinfonia op. 61 di Schumann. È importante (o è divenuto importante nel nostro secolo) che l’appiombo sia qui perfetto, altrimenti il pubblico scuoterà il capo e gli organizzatori arrossiranno d’imbarazzo. Non è in verità difficile ottenere l’appiombo se si mantiene rigorosamente il tactus. Ma un tactus inalterato, alla fine di una vasta architettura, diventa meccanico e non dà all’ascoltatore il segnale della conclusione. Il direttore che spregia i vantaggi della routine allarga dunque il tactus. Però da qui cominciano i problemi, perché i tempi di reazione nervosa dei cento componenti un’orchestra oscillano entro una banda non lieve, e per quanto si stia attenti ci sono sempre i quattro disgraziati che, vuoi per paura vuoi per distrazione, “vanno giù” prima degli altri.
Interviene a questo punto la tecnica di Szell. Che allarga il tactus di poco – era un “freddo” e un “toscaniniano” -, con una progressione calcolata al centesimo di secondo e senza lasciar scappare via nessuno. La prodezza è certamente frutto di lungo allenamento e di lunga assuefazione dell’ orchestra al gesto del direttore. Però, frutto della sensibilità del direttore, acuita all’estremo, è anche la perfetta misura di allargamento del tactus: perfetta in quella sala, con quella acustica, con quel pubblico, alla fine di quella esecuzione. È un peccato che non si possano vedere le braccia e le mani di Szell in quel momento. Ma la tensione psicologica e fisiologica di chi sta camminando su un cornicione a cento metri dal suolo è avvertibile, palpabilmente, visceralmente.
Naturalmente, siccome a questo mondo non c’è nulla di veramente perfetto, all’ultimo accordo, su cui il direttore e l’intera orchestra scaricano l’accumulo di tensione nervosa, il timpanista attacca con un attimo di anticipo, Szell si sarà arrabbiato, o avrà tollerato? L’anticipazione del basso è un topos dell’esecuzione dell’Ottocento, e per un direttore nato nel terzultimo anno del vecchio secolo poteva rappresentare un piacevole ricordo del tempo che fu e degli insegnamenti di Richard Strauss. Ma Szell, che forse tollerava il lieve errore del timpanista o che forse gli impartiva poi in camerino una lavata di capo coi fiocchi, non concedeva nulla al caso e, se necessario, lo organizzava. Ascoltiamo le due transizioni dallo Scherzo al Trio I e al Trio II. Si tratta in entrambe le occasioni di far dimenticare il tactus precedente e di preparare il nuovo tactus: la logica di Szell, e la precisione con cui il calcolo logico assume figura sonora, sono prodigiose. Così come prodigiosa è la progressione della accelerazione alla fine dello Scherzo. L’orchestra è una macchina efficiente ma Szell non la fa funzionare come una macchina: anche nella accelerazione mantiene il respiro ritmico, la pulsazione irregolare che è metafora del cuore, non dell’orologio.
Questione di disciplina dell’orchestra e di tecnica del direttore. Dicevo prima che Szell era autoritario: esigeva moltissimo dagli altri come da se stesso. E dicevo che Reiner era tirannico. Che è cosa diversa. La spiegazione tecnica di Leonard Bernstein, che con Reiner aveva studiato nel Curtis Institute di Filadelfia, è a questo proposito quanto mai illuminante: “La sua battuta era microscopica ma magnetica. Non so ancora esattamente come ci arrivasse. La sua battuta, come il suo gesto, era economica. Non dava mai un «levare» per cominciare un pezzo, ma procedeva nel modo opposto, come per provocare uno stato di panico nell’orchestra, e ciò funzionava sempre, per poco che egli avesse a sua disposizione una buona orchestra. […] Penso che Reiner dirigesse più con gli occhi che con la bacchetta. Mi ricordo il suo sguardo, che trafiggendo l’orchestra da dietro i suoi piccoli occhiali magnetizzava i musicisti”.
Gli occhi di Reiner, il tiranno, costringevano a divinare la sua volontà. La bacchetta di Szell, il padrone, disegnava grafici che dettavano i suoi ordini. I risultati lasciavano in entrambi i casi di stucco gli ascoltatori.
Lo stile di Ormandy era molto più tranquillo, più riposante, e il suono sensuoso dell’ orchestra di Filadelfia avvolgeva e cullava gli ascoltatori. Mitropoulos, a New York, della precisione non si curava più che tanto.”[ … ] devo dire – spiegava ancora Bernstein – ch’ egli lasciò l’orchestra in un certo stato di deterioramento. Solo la dinamica di un repertorio dinamico gli interessava. Per contro, la sonorità di insieme lo lasciava indifferente, dal momento in cui otteneva gli accenti e i pianissimo che desiderava. Si preoccupava assai poco dell’intonazione e dei colpi d’arco”. E Charles Münch, a Boston, si affidava assai più all’istinto, all’improvvisazione e al magnetismo personale che all’organizzazione tecnica.
Szell era invece un tecnico meticoloso, che all’improvvisazione concedeva solo lo spazio strettamente indispensabile. Ciò, in fondo, è paradossale. Münch, per otto anni violino di spalla al Gewandhaus di Lipsia, aveva diretto esclusivamente orchestre sinfoniche; Szell, pianista, aveva cominciato come assistente di Richard Strauss all’Opera di Berlino e tra le due guerre era stato prima di tutto un direttore d’opera. Ora, tutti sanno quanto aleatorio sia il lavoro in teatro rispetto al lavoro in sala di concerto, e quale sia il margine di imprecisione che non solo è tollerato, ma che è connaturato al teatro musicale. Il teatrante Szell, divenuto nel 1946 direttore dell’orchestra di Cleveland, si rivelò come il più inflessibile ingegnere del repertorio sinfonico. E grazie al suo autoritarismo e alla sua tempra di lavoratore l’orchestra di Cleveland, più giovane di molte orchestre americane perché fondata solo nel 1918 e non ancora assurta al rango di grande orchestra internazionale, arrivò a competere con le gloriose consorelle di New York, Filadelfia, Boston e Chicago.
Per capire che cosa ciò significasse basti pensare che la Sinfonica di Houston, a cui non mancavano i finanziamenti, scritturò come direttori stabili Ferenc Fricsay nel 1954, sir Thomas Beecham nel 1954-55, Leopold Stokovsky dal 1955 al 1961. Grandi ambizioni nutrivano le orchestre del Minnesota, di Cincinnati, di Los Angeles, di Pittsburgh. Eppure fu l’orchestra di Cleveland a diventare la quinta “grande” degli Stati Uniti.
Nove anni dopo averla presa in pugno, Szell portò la sua orchestra in Europa. Il virtuosismo della compagine è evidente, ed entusiasmante, nel bis, la Marcia di Rákáczy parafrasata da Berlioz. Colpì però molto allora, anche se oggi è un po’ difficile avvedersene, la sonorità degli ottoni. I professori di Cleveland suonavano strumenti di costruzione americana, dall’ emissione molto più agevole di quelli europei, ed adottavano una nuova tecnica del fiato e della tensione delle labbra. Oggi siamo avvezzi a questa sonorità; ma se ci riflettiamo un momento non tardiamo ad accorgerci del fatto che l’entrata delle trombe alla fine del primo tempo e alla fine dello Scherzo della Sinfonia di Schumann conserva ancora un che di inatteso e di magico. Così come magici sono i suoni delle trombe con la sordina in La Mer di Debussy.
Ciò che nel 1957 suscitò il maggior stupore, e la più grande ammirazione, fu tuttavia la trasparenza, l’ audibilità di ogni strato del tessuto sonoro. La registrazione monoaurale non favorisce di certo questo aspetto dell’esecuzione. Eppure si capisce ugualmente quanto viva, e palpitante per l’ ascoltatore, sia la presenza di ogni strumento. Si tratta di un indirizzo estetico, prima ancora che tecnico, a cui non fu forse estranea la diffusione della televisione, che con la molteplicità dei punti di ripresa e con il variare delle distanze postulava l’individuazione anche auditiva degli strumenti e una sorta di scomposizione cameristica dell’ orchestra. Non è possibile discutere qui di questa ipotesi. Basti dire che la calibratura dei piani sonori e delle dinamiche è tale da rendere oggi visibile, per chi conosce le partiture, un’orchestra che si ascolta soltanto. Visibile non tanto fisicamente, quanto nei rapporti gerarchici continuamente mutevoli che si stabiliscono in un’orchestra, e visibile entro la luce che si modella sugli eventi musicali. Talché il De l’ aube à midi è anche una progressione dall’indistinto allo sfolgorante.
George Szell, ospite abituale nel dopoguerra delle istituzioni europee e in particolare del Concertgebouw di Amsterdam, sarebbe tornato con la sua orchestra in Europa una volta sola, nel 1967. I tempi erano cambiati, l’orchestra di Cleveland aveva nel frattempo inciso molti dischi con Szell, passando dalla EPIC alla CBS, ed era notissima. Nel 1967 l’incontro con i pubblici europei fu quello, cordiale ed affettuoso, tra vecchi amici. Nel 1957 il carattere di fondo dell’incontro fu la sorpresa: un modo, inedito di preparazione di un’orchestra, un’estetica particolare dell’esecuzione. Un’estetica, diciamolo pure, non priva di pericoli. Ma Szell la dominava con un magistero che aveva, e che avrebbe avuto pochi rivali.