Country Music e Arcadia


di Piero Rattalino





Nella sua autobiografia pubblicata di recente anche in Italia, Artur Rubinstein fa un rapido accenno, che è opportuno leggere, alla nostra vita musicale degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale:

Non dimenticherò mai il mio stupore quando andai a Milano per la prima volta della fine della guerra (…). Viaggiammo carichi di grandi aspettative al pensiero di vedere un’opera nel grande teatro della Scala. Quando arrivammo, ci precipitammo dal custode per informarci su quale opera sarebbe stata data quella sera. Questi rispose con aria di superiorità: “La grande stagione concertistica è già cominciata e durerà per altre sei settimane”. Restammo a bocca aperta. Fu la stessa cosa a Roma e in altre importanti città: niente opere, solo la grande stagione sinfonica e concertistica. Con mia grande gioia, gli italiani avevano riscoperto la vera essenza della musica; Donizetti, Rossini, Bellini e Verdi con le loro belle arie, le cavatine, i do di petto dei tenori, i famosi soprani drammatici cominciavano a passare in secondo piano. Gli italiani si erano finalmente ricordati che la grande arte della musica era nata nel loro paese e se ne sentirono fieri. I gruppi musicali – che erano molto bravi, tra l’altro – spuntavano come funghi, rivelando la grandezza di Vivaldi, Monteverdi e Pergolesi: I Musici, I Virtuosi di Roma, Il Quartetto Italiano, il Trio di Trieste e l’Orchestra da Camera Scarlatti di Napoli mostrarono al mondo intero la grande arte italiana. Le opere naturalmente continuarono ad essere rappresentate in tutta Italia, ma, come in Germania, in Francia e in Inghilterra, adesso erano solo una parte della vita musicale (trad. di Maria Consiglia Vitale, Napoli).

Il lettore appena appena un po’ informato sulle vicende della vita musicale italiana nel nostro secolo non prenderà di certo per oro colato le parole di Rubinstein. Rubinstein non è né uno storico né un sociologo e non riflette mai sulle sue impressioni di viaggiatore sempre indaffarato e non di rado distratto. Ma proprio le impressioni di un ospite indaffarato e distratto, che era venuto in Italia già nel primo decennio del secolo e che vi era tornato spessissimo negli anni tra le due guerre, sono per noi preziose come testimonianze di un’ “aura” che si respirò in Italia dopo la seconda guerra mondiale e che non si era respirata prima: arrivando in Italia una differenza tra il nostro ed altri paesi, ritornandovi dopo la guerra non l’aveva più notata. Anzi, era rimasto sorpreso da un cambiamento inaspettato. Di complessi e di orchestre da camera ce n’erano stati in Italia anche in passato, e qualcuno di essi, come il Trio Italiano formato da Alfredo Casella, Alberto Poltronieri ed Arturo Bonucci aveva svolto un’attività internazionale non secondaria. Però solo con i complessi citati da Rubinstein, a cui sarebbero da aggiungere il Quintetto Chigiano e il Quintetto Boccherini, gli interpreti italiani entrarono da protagonisti nelle sale da concerto di tutto il mondo ed imposero, lo dico sebbene il termine sia da intendere in modo molto approssimativo, una “linea italiana” di interpretazione.

Si coglieva una “linea italiana” specialmente nei Virtuosi di Roma e poi nei Musici, che facevano conoscere la musica strumentale dell’Italia barocca; la si coglieva però anche nel Trio di Trieste e nel Quartetto Italiano, che di musica italiana non ne avevano molta, da portare gloriosamente in giro per il mondo. Il Quartetto italiano, è vero, all’inizio della sua attività eseguì musiche di Giovanni Gabrieli, Neri, Vitali, Alessandro Scarlatti, Marini, Tartini, e mantenne per lungo tempo in repertorio Boccherini, Cambini, Giardini, Cherubini. Però la musica italiana per quartetto non aveva in serbo un Vivaldi, che fu la grande rivelazione su cui si basarono le fortune dei Musici e dei Virtuosi di Roma, e non aveva in serbo nemmeno, all’altro estremo, un Bartók, anche se il Quartetto Italiano eseguì Gian Francesco Malipiero e Ghedini. Il Quartetto Italiano, come il Trio di Trieste, si misurò quindi con i concorrenti stranieri su un repertorio che andava al principio da Haydn a Ravel, con la più tardiva aggiunta di Schoenberg, Webern, Bartók, Kodàly, Prokofiev, Shostakovic. E, come il Trio di Trieste, divenne subito imbattibile in Ravel, che in Italia era stato popolarissimo nel periodo tra le due guerre e che aveva rappresentato un punto di riferimento per tutti gli interpreti (basti aggiungere al Trio e al Quartetto un pianista come Arturo Benedetti Michelangeli, la cui interpretazione del Concerto in sol venne ben presto preferita non solo a quella della dedicataria dell’opera, Marguerite Long, ma persino a quella di Gieseking, che Ravel lo aveva, in un certo senso, “impersonato” per vent’anni).

Accostandosi a Ravel, il Trio di Trieste ed il Quartetto Italiano raccoglievano indirettamente la lezione di Alfredo Casella, amico di lunga data di Ravel e suo partner nella prima esecuzione assoluta della Valse in versione per due pianoforti, e di Victor de Sabata, direttore della prima esecuzione assoluta dell’Enfant et les sortilèges e celebratissimo interprete del Bolero. Sul preziosismo timbrico di Ravel, sulla funzione di struttura portante affidata al timbro i due complessi italiani si basarono dunque per leggere tutto il repertorio che presentavano. Per il Quartetto Italiano fu poi determinante l’esperienza delle Bagatelle di Webern e della Grande Fuga di Beethoven, ma l’ancoraggio iniziale a Ravel non venne sciolto quando la bussola fece ruotare il cannocchiale verso una cultura viennese in modo più diretto.

La formazione dei complessi strumentali italiani che conquistarono in breve tempo una fama internazionale avvenne in un periodo di isolamento del paese: la campagna coloniale d’Etiopia, l’alleanza con la Germania, e infine la guerra avevano limitato la circolazione in Italia di complessi internazionali e avevano prima ostacolato e poi impedito i viaggi all’estero dei giovani musicisti. Paradossalmente, l’isolamento divenne però un’occasione ed un vantaggio perché nella ristrettezza degli orizzonti e degli stimoli fu l’antico rapporto con la cultura francese, e con Ravel, ciò che a parer mio consentì e quasi impose al Quartetto Italiano e al Trio di Trieste di elaborare una linea culturale di ripensamento e approfondimento di una tradizione italiana, senza imitazioni dirette e senza deviazioni eclettiche che avrebbero reso molto più lento il processo di maturazione. Suonavano anche a memoria, i giovani componenti il Trio di Trieste e il Quartetto Italiano. Ma questa particolarità era ben lungi dal rappresentare un’ostentazione esibizionistica: era invece il segno di un lavoro senza risparmio per impadronirsi di una letteratura che in pratica era tutta straniera e che non aveva trovato un parallelo nella creatività italiana. Così, avendo alle spalle Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi, Puccini, ma non avendo un Haydn, un Beethoven, uno Schumann, un Brahms, il Trio di Trieste e il Quartetto Italiano compirono il miracolo di proporre e di far accettare al mondo una linea di interpretazione che nasceva dalla provincia culturale italiana senza apparire provinciale.

Non ho citato il nome di Mozart perché qui un rapporto diretto poteva passare attraverso i melodrammi su testo italiano. Il teatro di Mozart non era precisamente popolare, nel suo insieme, nell’Italia del 1935-45. Ma per lo meno il Don Giovanni rappresentava un mito, e chi ascolta dal Quartetto Italiano il Quartetto in re minore K 421 non può non riscontrare nell’interpretazione la sublimazione del teatro: specialmente in quella inattesa conclusione in re maggiore che suona così straziante invece che consolatoria. In Mozart, presenza sotterranea, e in Ravel, presenza palese della cultura del suo paese, il Quartetto Italiano trovava così i riferimenti sicuri di una navigazione molto perigliosa che andava a toccare tutte le culture. Nel concerto di Lugano non desta perciò meraviglia l’ eccellenza dei risultati raggiunti in Mozart e in Ravel. Ma richiede un commento l’interpretazione di quello strano connubio tra vecchia Boemia e giovane Nuovo Mondo che è il Quartetto op. 96 di Dvorak.

A suonare il Quartetto di Dvorak con musicalità “naturale” si va a cascare inevitabilmente nell’affettività sentimentale dello strapaese. Che l’estetica dello strapaese non sia assente, nel Quartetto di Dvorak, il Quartetto Italiano lo sa e non lo rifiuta: si ascolti come il secondo tema del finale venga realizzato con una sonorità che ricorda il duo popolaresco violino-fisarmonica, o come il terzo tema richiami alla memoria l’organo della parrocchia rurale. Al di là dei dati in qualche modo aneddotici, e che fanno “colore locale” e che non vengono né espulsi né decaratterizzati, il Quartetto Italiano imposta però l’interpretazione sulla polifonia dei timbri, passando dall’ordinamento prospettico degli eventi alla contemporaneità di eventi diversi, che coesistono sulla base non di un ordine gerarchico ma di un’armonia prestabilita. Non è più un quartetto: è una conversazione in Arcadia, in cui anche il parere più umile desta interesse e viene trattato con amoroso rispetto. Dalla country music all’Arcadia … Che era il sogno di Dvorak alla fine dell’Ottocento, e il nostro alla fine del Novecento perché, sembra, tutte le fine-secolo ridanno voce ai sogni impossibili.



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