«Ho scritto proprio nei momenti d’ozio di Napoli un quartetto. L’ho fatto eseguire una sera in casa mia senza dargli la minima importanza, e senza far invito di sorta. Erano presenti soltanto sette od otto persone solite a venire da me. Se il quartetto sia bello o brutto non so … so però che è un quartetto! ». In queste poche parole, schiette e disadorne secondo il suo solito, Verdi non si limitava a dar qualche ragguaglio della sua vita all’amico conte Arrivabene, nell’ aprile del 1973. Volente o nolente (piuttosto), consapevole più o meno, il sessantenne maestro si trovò anche a far un po’ di luce sulla complessa storia del quartetto d’archi (la quale, a sua volta, si trovava circa alla metà del suo percorso bisecolare). Nei momenti d’ozio, negli intervalli della composizione e dell’allestimento teatrale a casa propria, senza la pompa di troppi inviti: con una certa noncuranza estetica, ma con precisa attenzione formale: così diceva chi una decina d’anni prima aveva rifiutato di presiedere una Società del Quartetto (“non ricordo se a Milano o altrove”). E infatti il quartetto d’archi era sorto e aveva a lungo prosperato nelle sale nobiliari, come forma di intrattenimento anche dilettantistico, sulla certezza di una costruzione, di una struttura, di una forma che non tollerava tante libertà. Senza dubbio i cinque pezzi per quartetto d’archi di Webern l’avrebbero stravolta, la forma classica, e neanche quarant’anni dopo; ma nel 1938 il quartetto op. 28 dello stesso Webern, oltre a ritessere i fili della forma, avrebbe lavorato sopra una serie dodecafonica ricavata dalle lettere del nome di Bach. Ancora più indietro guardavano gli otto quartetti di Malipiero, composti nell’arco di un quarantennio pienamente novecentesco; eppure, intanto, era al Classicismo che miravano i quartetti di Prokofiev, di Shostakovic, di Reger, di Pfitzner, anche a quello meno vitale e più accademico. Più indietro, dunque, anche se non moltissimo. Nel tardo Settecento, tra la lenta fine del barocco e l’improvviso scoppio della Rivoluzione francese s’erano consumate l’invenzione e l’impostazione del classicissimo quartetto d’archi. Da cento rivoli, dal concerto, dalla sonata a quattro, dal ricercare, dall’antico contrappunto e dal moderno stile galante erano derivati quell’ essenzialità strumentale, quella castigatezza timbrica, quella serietà o semplicità d’eloquio che tanto bene figuravano nel quartetto: troppo dilettantistico il trio, troppo indulgente alla melodia la sonata, troppo ricca e variopinta la sinfonia, troppo brillante il concerto. Due violini, una viola e un violoncello andarono a genio anche alla musica d’occasione, rivolta al puro svago; ma soprattutto alla musica dotta, nelle cui braccia scordarono presto le lusinghe della galanteria medio-settecentesca, il breve respiro dei tre o anche due movimenti, il nome significativo di “divertimento”, la funzione gradevolmente salottiera e aristocratica e amatoriale. E quartetto fu, dall’ op. I di Haydn, datata alla fine degli anni Cinquanta e stampati nel 1764, e dall’op. I di Boccherini, stesa nel 1761 e pubblicata nel 1767. Colto, composto, raffinato, non privo di spunti umoristici ma più spesso austero, addirittura serioso, il quartetto non ebbe difficoltà ad accompagnarsi agli altri generi classici nell’assunzione della struttura quadripartita, della forma-sonata, naturalmente di tutti i segreti dell’armonia e della modulazione: ai fini di un dialogo e di una conversazione che avvenissero sulla regola dell’economia (se possibile) ispirata a un Illuminismo della più bell’ acqua.
Come dire Mozart. Mozart stava a Vienna, nel giugno del 1783, beandosi della compagnia del barone Gottfriend van Swieten che gli apprendeva la passione per l’antica musica tedesca, bachiana e haendeliana in particolare. Due, anche tre ore passava la domenica in casa del maturo e colto burocrate: si suonava, si cantava, si improvvisava, si leggeva qualcosa come Il clavicembalo ben temperato e L’arte della fuga. E il ventisettenne maestro, la cui vocazione aveva appena eretto l’edificio italiano, gluckiano, sovranazionale di ldomeneo, re di Creta e quello fieramente tedesco del Ratto dal serraglio (nell’ambito di un catalogo di oltre quattrocento lavori), anche nello strumentale fece un vigoroso balzo in avanti, quasi contemporaneamente scoprendosi un altro padre musicale e un autentico musicale antenato: Haydn, che aveva allora una cinquantina d’anni, e Bach, che era morto da oltre trenta, l’uno che godeva di una sostanziosa fama d’attualità e l’altro che purtroppo non era quasi più nemmeno un nome (per Bach, allora, s’intendeva Carl Philipp Emanuel, non Johann Sebastian). Ma più che la vita e la morte a Wolfgang Amadeus interessavano la musica, la tecnica e lo stile musicale, donde i sei quartetti composti tra il dicembre dell’82 e il gennaio dell’85, pubblicati da Artaria nel 1785 come op. X e dedicati al vicino Haydn con tutta la possibile reverenza per il lontano Bach. Schiettissimo l’impatto tonale del secondo numero del ciclo, il Quartetto in Re min. K 421: ancorché “sottovoce”, la prima battuta chiede al primo violino un Re alto e due Re bassi, al secondo violino sei La, alla viola sei fa, al violoncello un Re e un Do non ancora diesis; e la seconda battuta, mentre il violoncello continua a scendere quasi come un’antica passacaglia, offre al primo violino il destro di introdurre quel Do diesis che assicura della tonalità di re min. (la stessa del Concerto per pianoforte e orchestra K 466, di Don Giovanni, del Requiem). Nell’ assieme tutto l’Allegro vive dell’austerità della forma-sonata, ma nell’assieme soprattutto. Nei particolari l’inapparente ricchezza del brano si ritaglia spazi inaspettati, dallo strano secondo tema a quella felice ascesa del primo violino che, puntata e anche trillata, rifiuta l’accompagnamento del violoncello. L’Andante non indulge che in parte alla soave cantilena di cui Mozart è altrove tanto capace: intessuto di pause e di vicini nessi scalari, esso riesce a far già presentir Beethoven (Carli Ballala), e non di meno a diffondersi in arpeggi e in agili volute virtuosistiche. In Allegretto, il Minuetto che segue suona altrettanto severo, e se contrasta col Trio è solo perché detto (in Re magg.) risulta tanto schematico da odorar molto di parodia, di pezzo galante non seriamente ma ridicolamente inteso. Chiude il lavoro un Allegretto ma non troppo che varia una siciliana mutuata dallaSonata in La magg. K 377 (per violino e pianoforte): ma poche sono le tenerezze che emergono da una siciliana così trattata, nonostante la liquidità di certe variazioni e la benvenuta assunzione del Re magg. e le ultime battute in Più allegro hanno la secchezza, quasi la violenza della tragedia.
La musica da camera era un dovere, una necessità per i compositori del Settecento, versati in tutti i generi a essere un’occasione esterna, o un progetto personale, o addirittura un puntiglio dotto e accademico. Per Antonin Dvorak fu tutto questo, ma anche un empito di musicalità diverso dalla vocazione sinfonica e dalla passione teatrale: in quasi 35 anni l’entusiasta diffusore del nazionalismo musicale cèco produsse infatti qualche trio, alcuni quintetti, un sestetto, parecchi quartetti. Dove la rispettosa conoscenza dei primi romantici tedeschi e l’amichevole conoscenza diretta da Brahms e della sua musica avranno senza dubbio operato, ma senza altro dubbio accanto al folklore negro-americano, accostato nel corso di due viaggi, e all’incoercibile canto popolare della sua terra. Il Quartetto in Fa magg. op. 96 “L’americano” (1893) conferma la classica quadripartizione del suo genere ormai più che centenario. L’iniziale Allegro ma non troppo attacca in sordina sul tremolo dei violini e sul pedale del violoncello che in pianissimo stabilisce immediatamente la tonalità di Fa magg., mentre lo slancio melodico spetta al registro della viola, e dopo qualche altra timidezza arpeggiante non esita molto a esibire la tipica inventiva di Dvorak, dove ricchezza e vivezza melodica convivono con una spontaneità che non è tipica del quartetto in genere (se non di quello di Schubert). Classicheggiante fin che si vuole, questo movimento non rinuncia mai alla comunicativa, che anzi potenzia mediante le risorse della modalità, con giri e svolte tematiche e armoniche piacevoli, accattivanti, mai cerebrali o seriose, sempre percorse da un’ammiccante vena di edonismo (onde l’iniziale appello a Smetana e il generico omaggio a Brahms vengono riassorbiti nella massima disinvoltura). Similare l’impostazione del Lento, aperto da un’acciaccatura d’ottava e poi condotto sopra un tracciato piuttosto stravagante, quasi rapsodico, compiaciuto di abbellimenti (come trilli) e di note acute per il primo violino; una simpatica alternanza di accordi strofinati con l’arco e pizzicati con le dita chiudono poi il movimento. E preparano il terreno per lo Scherzo che segue, semplicemente definito Molto vivace (poi Poco meno mosso): frequenza di pause, vivacità ritmica, ripetizione di incisi caratterizzano il breve movimento, che dopo un attacco parallelo fra secondo violino e violoncello, comunque s’avvale di scandite alternanze tonali. Assai più lungo, il Finale è unVivace ma non troppo (poi Meno mosso) che insiste su suoni, accordi, incisi, ostinatamente e quasi maliziosamente ripetuti (sono le diciassette battute tutte di la gravi per il secondo violino e le altrettante di fa per la viola). Parecchi temi, s’usa rilevare, hanno tendenze pentatoniche in questo brano, ma pochi le realizzano decisamente, com’è facile verificare. Anche se sul fatto che loScherzo sia l’adattamento di un canto d’uccelli sentito nei boschi di Iowa (a Ovest di Chicago) una verifica non sarà proprio facilissima (venticinque secoli prima un poeta greco come Alcmane aveva scritto di conoscere i canti di tutti gli uccelli).
83 i quartetti di Haydn, e uno solo il contributo quartettistico di Ravel (il discorso potrebbe continuare confrontando numericamente Mozart e Debussy, Beethoven e Berg, Schubert e Respighi). Uno solo e nemmeno troppo problematico, almeno all’apparenza. Del Quartetto in fa magg. di Ravel, composto dal dicembre 1902 all’aprile 1903 ed eseguito nel 1904, il critico Pierre Lalo scrisse subito, su “Le Temps”: “nelle sue armonie e nelle sue successioni di accordi nella sua sonorità e nella sua forma, in tutti gli elementi che presenta e in tutte le sensazioni che evoca, emerge un’incredibile rassomiglianza con la musica di Debussy”, con la notevole e dichiarata differenza che Debussy è pur sempre sensibile e suggestivo, Ravel non potrà mai fecondare l’aridità della propria geometrica manifattura musicale. Dedicato al suo “cher Maître Gabriel Fauré”, il quartetto s’apre con un Allegro moderato che affida subito il bel tema al primo violino, mentre il violoncello sale regolarmente per due ottave dalla tonica grave: il qual tema sarà “très doux”, e ricomparirà con l’esatta indicazione di I Tempo, ma senza abdicare al suo disegno nitido, esatto, quasi meccanico, del resto svolgendosi attraverso un rispetto della forma classica allentato ma non incrinato dalle varie indicazioni espressive e dinamiche. Classico, dunque, il quartetto di Ravel, e certo attento al cristallino messaggio di Saint-Saëns; ma siccome negli altri tre movimenti, accortamente costruiti, un tema riappare sempre, allora vorrà dire che la memoria dell’autore riva’ anche all’ antagonista di Saint-Saëns, a quel Franck che nella Francia del secondo Ottocento rappresentava il più verace aggiornamento wagneriano. Così, dopo un secondo e scherzoso movimento tanto “vif” quanto “rythmé”, il terzo movimento non è soltanto il Très lent annunciato in testa: a distanza di poche battute ecco Très calm e, Moderé, Pas troplent, con frequenza di richiesta di sordine e un’imprevedibile acquisizione di ben cinque bemolli in chiave. Vif et agité suona il quarto movimento, alquanto esteso e articolato (5/8, 5/4, 3/4 in alternanza) e pure meno accidentato degli altri. Sarà perché in sede finale piuttosto che in sede mediana è giusto che un pezzo scopra le carte, e perché le carte del quartetto di Maurice Ravel hanno sempre una gran voglia di scoprirsi. Colpa dell’aridità, dell’insensibilità, dell’automatismo musicale (condivisi del resto con uno Stravinskij, un Hindemith, un Honegger)? No, come raccomandava Andrè Suarés: Ravel amoreggia con il classico, ma “usa le forme classiche come un giocoliere le sue dita”. Si prende gioco delle forme classiche, Ravel, le rinnova, le trasforma con l’ironia, da quel malizioso e supremo rappresentante del Novecento musicale che è.
Mozart classico e talora romanticheggiante, Ravel classico e sempre parodistico, dei tre autori compresi in questo concerto forse il più ingenuo e naturale e fiducioso cultore del quartetto è proprio Dvorak, che ne sembrerebbe anagraficamente escluso. Ma tra l’Austria e la Francia, in pura musicalità la Boemia non ha nessuna intenzione di cedere il passo, avanzando credenziali che si chiamano anche Gluck e Mahler (senz’ onta per maestri come Rameau, Debussy, Haydn, Bruckner). La centralità della musica europea in termini geografici la mette in crisi anche chi la conferma in termini stilistici. Grazie al quartetto, dunque, accanto a Mozart c’è posto anche per Ravel e soprattutto per Dvorak.