Ciascuno di noi si è identificato e si identifica in una certa figura o ha visto e vede in una certa figura un ideale per la vita, per l’attività professionale, anche per la morte. E capita che ci si identifichi successivamente in più figure, in grandi figure, intendo, perché non avrebbe senso comune specchiare noi stessi, quale che sia la nostra mediocrità, in figure mediocri. È capitato così a me, che ho studiato molto il pianoforte e che come pianista ho iniziato la mia attività professionale, di identificarmi in alcuni grandi pianisti. E sebbene la mia bussola si sia poi rivolta verso altri orizzonti mi capita ancora, quando un angelo dà un volto e una voce ai fantasmi che non smettono di visitarmi. Orbene, il primo pianista che rappresentò per me l’ideale fu Wilhelm Backhaus. E di Backhaus non posso parlare senza ripensare a ciò che egli fu per me negli anni ’40 e ’50, cioè fino a che non comparve sul mio orizzonte il secondo astro, Richter, che s’aggiunse al primo per cominciare a comporre quella costellazione da cui mi sento oggi illuminato.
Conobbi il nome di Backhaus quando bambino, aprendo la radio in un giorno di guerra, sentii annunciare il Concerto op. 16 di Grieg diretto – così volevano i tempi – da Giovanni Barbirolli e suonato da Guglielmo Backhaus. Era il primo concerto che ascoltavo in vita mia, e rimasi folgorato dalla combinazione pianoforte-orchestra e dal pianista. Ma Backhaus, ridiventato nel frattempo Wilhelm, fu anche il primo grande pianista che ascoltai in un recital. Qualche mese più tardi sentii Cortot, di cui possedevo da tempo il disco con la Ballata n. 4 di Chopin. Cortot era geniale, imprevedibile, falloso. Backhaus era loico, ordinato,impeccabile. Scelsi Backhaus.
Più tardi capii che Cortot era stato l’ultimo esponente di un’epoca e Backhaus il primo esponente di un’altra, capii che Cortot era stato un artista del decadentismo e Backhaus della nuova oggettività. Ma al momento della scelta mi venne spontaneo di seguire Backhaus perché me la sentivo di lavorare nella direzione che lui mi indicava, mentre Cortot mi sembrava tanto affascinante quanto incomprensibile.
Oggi so che Backhaus non era affatto semplice e che, dietro la veste della forma logica, risultava incomprensibile quanto Cortot: incomprensibile, cioè artista, creatore che si fa la sua legge. Però in apparenza era artigiano, e ciò lo rendeva, per uno studente di pianoforte e poi per un giovane professionista, rassicurante, paterno.
L’audizione della Sonata op. 31 n. 2 di Beethoven eseguita a Lugano il 18 maggio 1960 mi fa ora capire benissimo – allora non lo capivo- quale Dottor Sottile sapesse essere Backhaus quando si trattava di plasmare quella cosa quasi implasmabile che è il tempo. Sembra, il suo, un tempo non plasmato dall’interprete ma assunto come dato esistente, come griglia; in realtà è una maglia piena di irregolarità tanto subdole quanto frequenti, e calcolata in modo da dare la sensazione di una spontanea naturalità, costruita invece in modo speculativo.
Farò un solo esempio, il più macroscopico. Nella monotonia ritmica del finale – ossessiva: Beethoven riprende, in dimensioni monumentali, l’idea di Mozart nel finale della Sonata K 310-, c’è una strana impennata alla battuta 381, poco prima della fine: il valore di sedicesimo, che non aveva mai cessato di scandire il tempo, si interrompe di botto ed a lui subentra un valore di un quarto, fortissimo. Nella battuta successiva il valore di sedicesimo riprende il suo dominio ma poi si trasforma in terzina di sedicesimi e quindi in trentaduesimo. L’ultima battuta di questo gruppo ci presenta un ottavo, una pausa di ottavo, un altro ottavo. Poi Beethoven riprende, in un piano improvviso, il tema principale del finale, e conclude, non senza il suo caratteristico crescendo che risolve in piano.
Questo il testo. La sua declamazione, comunque problematica, può essere molto varia. Era d’uso, nell’Ottocento, finire in pianissimo e rallentando nelle ultime battute. Ma Alfredo Casella, contemporaneo di Backhaus e “modernista” per fede e per principio, era tanto categorico nell’escludere, anzi nel vietare il rallentamento, che aggiungeva qui una didascalia ad hoc. Da un artigiano quale Backhaus sembra essere, noi ci aspetteremmo una soluzione non radicale ma moderatamente tradizionale: forse un leggero rallentamento – un segnale, per il pubblico, che si sta uscendo dal tempo musicale, per rientrare nel tempo reale – e magari il pianisssimo al posto del piano. Bachaus fa invece molto di più: dopo l’impennata nella battuta 381, con il valore di quarto, non riprende nella battuta 382 il precedente tactus e non realizza in modo matematicamente esatto le terzine e i trentaduesimi della battuta 383. Irrazionali sono le durate dei valori nella battuta 384. E alla battuta 385, riprendendo il tema principale, Backhaus stacca un tempo un po’ più lento di quello dell’inizio e continua a decelerare insensibilmente fino alla fine, eliminando il crescendo e assottigliando la dinamica verso un pianissimo che, se si dovesse scriverlo, lo si scriverebbe con tre p invece che con due.
È un’idea? È un effetto? Qualsiasi ascoltatore che segua l’esecuzione con la musica stampata sotto gli occhi sa che in Beethoven né c’è l’effetto, né c’è l’idea. E se fa il critico dell’interpretazione con lo spirito dell’antico Beckmesser o dei moderni “revisori dei conti” ministeriali contesterà l’atto di Backhaus come illegittimo, arbitrario. I censori meno rigorosi diranno che certi effetti senza causa vanno bene per il pubblico di grana un poco grossa che frequenta i concerti pubblici e penseranno che Backhaus, uomo indubbiamente di grandi rigori morali, alla fine non era un Robespierre e tanto meno un Saint-Just. Ci sono del resto censori che, ammirando generalmente il Rigoletto, arricciano il naso di fronte alla Donna è mobile o ad altrettali sopposti cedimenti ad un gusto musicale grossolano. Ma c’è anche chi nella Donna è mobile valuta la drammaturgia più della musica pura. E se si valuta la drammaturgia l’ effetto introdotto da Backhaus alla fine della Sonata op. 31 n. 2 di Beethoven proviene da un’idea: la musica sparisce, così misteriosamente com’era apparsa all’inizio del primo tempo. Era apparsa in pianissimo, con un lento arpeggio ascendente, sparisce, in pianissimo, con un lento arpeggio discendente, Erda che sorge dalla terra e nella terra risprofonda.
Questo lo capiscono tutti quelli che ci riflettono sopra senza preconcetti. Quel che non tutti capiscono, perché non tutti sanno calcolare i valori del tactus, è che insieme con il suono si disintegra anche il tempo. È un’idea complessa, della cui liceità lasceremo giudicare a chi conosce lo spartiacque tra il lecito e l’illecito.L’approvazione o non approvazione dell’atto compiuto da Backhaus non incide comunque sulla perfezione millimetrica della sua realizzazione.
Può, questa, essere opera di un artigiano?
Assolutamente no. È opera di poeta: di un poeta trascendentale, non certo di un lirico, che conosce la poesia, e vorrei dire l’estetica del calcolo. Un calcolo che risolve un problema immanente alla musica (non alla Sonata op. 31 n. 2 di Beethoven, a cui Backhaus lo applica illegittimamente) e che ricorre nelle ricerche sul tempo di Stockhausen negli anni ’60 e che ricorre oggi, ad esempio, nelle riflessioni teoriche e nelle creazioni di Aldo Clementi. Accostare Backhaus a Stockhausen può sembrare paradossale, e in un certo senso lo è. Ma credo di aver spiegato abbastanza il problema e quindi le ragioni dell’accostamento. Quel che mi interessava di far notare era che Backhaus, a settantaquattro anni, non continuava a girare il mondo, come non avrebbe continuato a girarlo fino alla morte da sopravvissuto di un’altra epoca, ma da uomo che coglie il riaffiorare di problemi eterni.
Negli anni ’60, nell’ultimo decennio della carriera, Backhaus non era più l’artista della nuova oggettività che io avevo conosciuto subito dopo la guerra. Senza rinnegare il suo passato aveva continuato ad evolversi: loico, ordinato, impeccabile come sempre ma rivelatore, con i suoi calcoli, di dimensioni misteriose della musica.
Alcuni anni or sono avevo scritto che Backhaus, alla fine della vita, aveva incontrato Mozart. E penso che a lui si possa applicare ciò che Luciano Berio diceva recentemente (Mercurio, 24 novembre 1990) di Mozart: “[ … ] le trasformazioni provocate da Mozart toccano una dimensione della musica che viene continuamente inquisita anche oggi: la trasformazione della scienza musicale in naturalità, la capacità, la possibilità di comunicare attraverso un equilibrio, quasi sempre reinventato, tra contenuto empirico e contenuto speculativo, tra eredità genetica e eredità culturale, tra il corpo e la mente”.
Logica e ordine non significavano in Backhaus mancanza di entusiasmo: anzi, Backhaus era divorato dall’eros pedagogico, come ben sapevo io che avevo deciso di seguirlo. E impeccabilità non significava perfezionismo. Qualche nota presa male capitava pure a lui, e gli capitava specialmente, come a tutti i comuni mortali che si emozionano se parlano in pubblico, all’inizio del recital. Backhaus era però padrone dei suoi strumenti fisici di lavoro a settantasei anni come a cinquanta, come a trenta.
Quale fosse la statura del Backhaus più propriamente pianista lo si capisce bene dai sette Studi di Chopin registrati nel 1953, a sessantanove anni. Chi ha faticato sul pianoforte potrà capire perché il nitore tecnico di Backhaus mi convincesse più della fascinosa vertigine di Cortot. E chi non lo sapeva o non lo ricordava troverà in Backhaus il testimone di un costume concertistico oggi tramontato: il breve preludiare prima di eseguire il pezzo in programma o tra un pezzo e l’altro. Che era un modo cortese di chiedere al pubblico il silenzio, il silenzio in cui nasce il tempo della musica che si sostituisce al tempo reale. Ma la grande sorpresa di questa registrazione – degli Studi e del Valzer avevamo l’incisione in disco – è il Notturno op. 27 n. 2. È l’unica esecuzione rimasta che ci riporti il Backhaus interprete della poesia intimistica di Chopin. Ed è un’interpretazione così serena e luminosa da rendere al vivo, per chi non lo ascoltò in pubblico, il Backhaus più segreto, quello a cui si poteva dire, senza arrossire d’imbarazzo, “Grazie, Wilhelm”. E forse, senza rendermene conto, per questa ragione io scelsi nei miei quattordici anni Backhaus.